QUALCUNO MI DICE… (parte 1)

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Qualcuno mi dice che ogni tanto i miei articoli sono troppo lunghi per un blog. Un po’ mi offendo, incasso, rifletto, penso che abbia ragione e poi spiego. Spiego raccontando il motivo per cui scrivo. Scrivo perché ho delle cose da dire e che, vivendo da solo, forse frustrato o forse intimamente felice, mi piace dirle ad un pubblico indefinito che, udite udite, può scegliere anche di non leggerle. Scrivo di cose che mi piacciono, di argomenti che ritengo interessanti e a volte di banalità che guardate da un altro punto di vista possono (spero) offrire spunti interessanti. Scrivo e pubblico i miei articoli sempre di prima mattina, immaginando che il mio lettore sia colui che con calma sta facendo una buona colazione con musica di sottofondo e una bella luce che entra dalle finestre; o forse colui che un po’ di fretta, ma non troppa, si appresta ad uscire di casa e per il momento è ancora bloccato, tra un misto di piacere e dovere, sulla tazza del water; o forse colui che sta sul tram o sulla metropolitana, fagocitato da internet, chino sulla “piccola scatola”, alla ricerca di qualcosa da leggere di interessante per riempire il tempo che lo separa dall’arrivo in ufficio. Oggi scontenterò chi mi dice che i miei articoli sono troppo lunghi, immaginando che il mio lettore sia colui che fa un’abbondantissima colazione, colui che, causa indigestione della sera prima starà seduto tanto sulla tazza del water o che abbia l’ufficio molto distante da casa; scusatemi tanto, farò un regalo alla fine dell’articolo, a tutti coloro che abbandoneranno la lettura a metà.
Dopo aver letto il mio ultimo articolo intitolato “PERFETTI SCONOSCIUTI”, una persona che stimo tanto e alla quale per certi aspetti affido la mia vita, mi ha portato un articolo di giornale tratto da LA REPUBBLICA, scritto il 28 Giugno 2015 da Maurizio Ferraris; l’ho letto, l’ho trovato interessate, e, nonostante mi abbia fatto sentire “arrivato tardi”, condividendolo, lo condivido con voi.

“E’ molto comune considerare la tecnologia come alienazione. Ci sarebbe un sé della natura umana, quello che noi siamo davvero, e che è un condensato di tutte le virtù: buoni, disinteressati, dialogici, generosi, semplici. Poi interverrebbe la corruzione attraverso la tecnica e la società, che porta l’avidità, la menzogna, la sopraffazione, lo sfruttamento e tante altre disgrazie. E’ la visone dell’uomo lasciataci da Rousseau e che sta alla base della stragrande maggioranza dei discorsi sulla tecnologia: sempre al telefonino, sempre sui social a litigare, sempre ascrivere messaggini invece che parlare con i nostri amici e familiari, cosa siamo diventati, come ci siamo ridotti…
Come dire che, se dipendesse da noi , noi saremmo tutt’altro. E’ quel male venuto dall’esterno che ci trasforma e ci aliena. Proprio come quell’attaccabrighe di Rousseau che diceva di sé di essere il più socievole degli uomini. Ovviamente non è così. Siamo sempre al telefonino, ma non è forse perché Aristotele aveva definito l’uomo come un animale sociale? La tecnica, ecco il punto, non è l’alienazione ma rivelazione, ossia mostra all’umanità ciò che realmente è, al di la degli autoinganni, nel bene come nel male.
In particolare, la rivelazione più evidente del web è che non è vero che l’uomo nasce libero e chissà come si trova dovunque in catene, ma piuttosto che l’uomo nasce in catene e può e deve cercare di liberarsi, senza tuttavia nascondersi la naturale attrazione per le catene, per quello che Houellebecq ha descritto come “sottomissione”. E’ il tema antico della servitù volontaria, ma il web lo rilancia con una potenza e una evidenza tutta nuova. Un articolo del New York Times del 20 maggio scorso si intitolava: “Si può far causa al proprio capo, se ci chiede di rispondere di notte alle sue mail?”. Sì si può. Ma il più delle volte non lo si fa, anzi, si risponde a chicchessia, senza obblighi di lavoro, di dipendenza o di altro tipo. Che cosa fa sì che quando il telefono squilla ci precipitiamo a rispondere, che quando un trillo ci avvisa della ricezione di un messaggio apriamo ovunque noi siamo e incominciamo a scrivere a nostra volta? O più banalmente chi ce lo fa fare?
Questo è il cuore inconscio del web; oltre ad essere animali sociali e dotati di linguaggio, e molto prima che essere animali razionali, siamo animali sottomessi, e disponibili a essere mobilitati. Ovviamente, l’onnipresenza della sottomissione nel mondo sociale e nei rapporti interpersonali era evidente anche prima, ma veniva razionalizzata come risultato di motivazioni più profonde e più sensate. Ci si sottomette agli Dei per avere protezione da un mondo sconosciuto e ostile; ci si sottomette al potere perché è più forte; ci si sottomette all’economia per ottenere dei beni. Ma, esattamente, qual è il fine che spinge legioni di esseri umani, ovviamente me compreso, ad accettare così tranquillamente le imposizioni che ci arrivano dal web incominciando dalla coazione a rispondere?
Qui tocchiamo un nocciolo oscuro dell’umanità, la sua torva attrazione verso l’imitazione e l’ubbidienza, che Gadda ha raccontato così bene in Eros e Priapo. Sperare di essere emancipati dal web come tale non è più ingenuo dell’attendere l’emancipazione dalla plastica o dalla ruota. Si potrà essere emancipati attraverso la cultura, come sempre è avvenuto, e oggi può avvenire attraverso il web, con una efficacia molto maggiore perché molto maggiore è la penetrazione del medium. Qui come altrove, dove era l’ES può arrivare l’IO , dove era la sottomissione può arrivare l’emancipazione. Basta volerlo, ma proprio questo non è ovvio, perché di solito gli umani preferiscono le tenebre alla luce”

Tempo di lettura previsto 6 minuti.
Probabilmente, la colazione non è ancora finita, i vostri bisogni sono ancora lì in attesa di uscire del tutto e forse non è ancora arrivato il momento di scendere da tram e metropolitana; in tutti i casi auguro una buona giornata a tutti Noi animali sottomessi, mettendo via la “piccola scatola” che ci rende frangibili, alzando la testa e respirando perché oggi, mentre non ce ne accorgiamo, splende il sole.

Grinta

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